Un dazio massimo del 15% sui beni europei in ingresso negli Stati Uniti sembra, sulla carta, una boccata d’ossigeno per la UE, dopo il Liberation Day sulle tariffe annunciato dal presidente degli USA, Donald Trump, nell’aprile scorso, che paventava aliquote fino al 30%. Ma per l’industria farmaceutica del Vecchio Continente l’accordo siglato tra Washington e Bruxelles il 27 luglio in Scozia potrebbe nascondere delle insidie, sebbene fra i beni “daziati” al 15% rientrino i farmaci.
Per i medicinali a maggiore valore aggiunto – come i biologici e le specialità protette da brevetto – lo scenario resta infatti opaco.
I funzionari statunitensi hanno infatti confermato l’apertura di una nuova indagine (Section 232 del Trade Expansion Act) sulle importazioni farmaceutiche, che potrebbe portare a tariffe aggiuntive, adducendo a motivo la sicurezza nazionale. Già utilizzata in passato per l’acciaio e l’alluminio, la Section 232 può legittimare misure protezionistiche unilaterali, scavalcando gli impegni presi a livello internazionale.
Un quadro, questo, che potrebbe accogliere due scenari: da un lato, il rallentamento delle esportazioni UE verso gli USA, uno dei principali mercati di sbocco per il made in Europe. Dall’altro, un aumento dei prezzi per i consumatori statunitensi, proprio mentre l’amministrazione Trump afferma di volerli ridurre tramite “barriere selettive”.
Gli analisti: “Una tregua apparente, ma la tensione resta”
Secondo Carsten Nickel, analista della società di consulenza strategica Teneo, specializzata in analisi geopolitica e risk assessment per governi e multinazionali ,“le ambiguità dell’accordo potrebbero generare nuove dispute tecniche e politiche nei prossimi mesi”.
E a destare preoccupazione è proprio l’asimmetria negoziale: gli USA mantengono intatto il proprio margine di manovra attraverso il Trade Expansion Act, mentre l’UE rinuncia ad azioni ritorsive in nome della stabilità.
Sul piano macroeconomico la Commissione Europea stima un incremento delle esportazioni tedesche in USA da 133 a 149 miliardi di dollari entro il 2027. Il dato, sebbene riferito a un singolo Paese dell’Unione, è da considerare come indicatore di tendenza per l’intera area UE. La Germania, infatti, è il primo esportatore europeo verso gli Stati Uniti, con un hub strategico per il pharma, grandi player multinazionali, centri di produzione e ricerca.
Un segnale da non sottovalutare
Per l’industria farmaceutica europea l’accordo del 27 luglio rappresenta dunque un segnale da non sottovalutare. Dietro una riduzione dei dazi c’è il rischio concreto di un ribilanciamento geopolitico e industriale che potrebbe spingere investimenti, produzione e innovazione lontano dall’Europa. La posta in gioco è alta: non solo per le aziende, ma anche per l’autonomia sanitaria e tecnologica dell’UE.